lunedì 14 maggio 2012

Gerry - Recensione


Gerry di Gus Van Sant - Genere: drammatico - USA, 2002

Tratto da una storia vera, il film racconta la vicenda di due ragazzi che decidono di andare a fare un scampagnata nel deserto e si smarriscono. Solo uno di loro riuscirà a tornare indietro.

Prima parte della vansantiana "Trilogia della morte", che comprende anche l'osannatissimo (a ragione!) Elephant, Gerry è un'opera maestosa, silenziosamente splendida e profondamente innovativa e indagatrice per quello che riguarda le dimensioni del linguaggio cinematografico. Forse la punta più alta dello sperimentalismo vansantiano, ancor più del suo film successivo. Girato poco dopo la tragedia dell'11/09/2001, il film è pensato come un contraltare visivo al senso di smarrimento e di perdita delle certezze che aveva invaso la società americana. Anche grazie alla ripresa di alcune tecniche registiche adottate dal regista Bela Tarr, Gerry diventa l'estrema manifestazione di un cinema dell'Apocalisse, molto poco americano. In questa sede cercherò di mostrare a grandi linee che cosa mi ha suggerito il film, quali corrispondenze ha fatto scattare, senza nessuna pretesa di completezza.

La pellicola si presenta sin da subito come una riproposizione "strutturalista" del genere western, molto caro a Van Sant. Il paragone potrebbe stupire, ma Gerry è in effetti un western ridotto all'osso, alla sua struttura fondamentale: opposizione fra civiltà e barbarie, paesaggio americano etc. Pur senza avere praticamente una struttura narrativa il film dialoga quindi con la tradizione cinematografica americana, ma la integra e la supera in modo dialetticamente eccellente. La musica straniante e onirica di Arvo Part accompagna in questa prima, splendida sequenza (le immagini di Van Sant sono sempre e comunque pittoricamente magnifiche) dei lunghi piani-sequenza che appiattiscono l'inquadratura tipica del western: se infatti nei film tradizionali del genere erano presenti gli elementi del paesaggio (il cowboy, il cavallo, la vegetazione e le rocce) in maniera stratificata, vale a dire a differenti profondità, qui tutti questi elementi ritornano ma allo stesso livello di dignità (anzi, come vedremo, il paesaggio assume un'importanza molto maggiore). I protagonisti sono presentati in controluce, contravvenendo a qualsiasi regola stilistica (e, fra l'altro, compaiono dopo cinque minuti buoni dall'inizio del film), a dimostrazione che non sono le loro macchiette narrative ad interessare il regista.

Sin da subito le battute sono pochissime, i dialoghi quando sono presenti si riducono a poche semplici schermaglie verbali che si diradano progressivamente nel corso del film, man mano che i due Gerry si addentrano nel deserto. Spesso sono discorsi incomprensibili a uno spettatore qualunque, sono piuttosto autoreferenziali (p.e il discorso fatto poco dopo l'inizio, durante la prima notte, in riferimento alla "conquista di Tebe" ritengo potrebbe alludere a un tipo di videogioco storico, molto popolare in quegli anni; questo fra l'altro stabilirebbe un legame con la valenza del videogioco usato in Elephant). 
Anche in questo film, peraltro, ritornano le nuvole (stilema tipico del regista), solitamente a marcare un passaggio di tempo, un restringimento del tempo diegetico del film, in particolare nei momenti di transizione giorno/notte. 

Dopo la prima notte assistiamo alla prima di una lunga serie di metamorfosi del paesaggio, che qui passa dall'essere uno spazio brullo puntellato di arbusti al presentarsi come una distesa di rocce e sassi, il tipico deserto roccioso americano. Da questo momento spariranno anche i rumori "di sottofondo" degli animali e il rumore più comune sarà quello del vento: la destrutturazione procede sempre di più.
Nel frattempo i due Gerry vengono lasciati sempre più in disparte, occupano le zone interstiziali e marginali dell'immagine e proprio in questo spazio roccioso inizia la loro metamorfosi, che li abbruttirà terribilmente. E' qui che fa la sua prima comparsa una figura fondamentale nell'ottica della rilettura western: la maglietta di Gerry (Matt Damon) sistemata a turbante gli dona un'aria altra, orientale che non può non essere letta in opposizione con la facile demotivazione dell'altro Gerry (Ben Affleck). Sembra che il nuovo cowboy di Van Sant sia una specie di beduino del deserto. 

Il deserto roccioso di frantuma presto in pulviscolo sabbioso e attraversiamo insieme ai due Gerry una specie di Sahara. Qui c'è una delle scene più belle di tutto il film, un debito di Van Sant nei confronti di Bela Tarr (in particolare de Le armonie di Werckmeister): un lunghissimo piano-sequenza dei due Gerry che camminano fianco a fianco, con le loro figure che si sovrappongono progressivamente. Armonizzate dal ritmo della marcia le loro silohuettes diventano una sola, indistinguibile entità. I due Gerry sono in realtà uno solo, due facce della stessa medaglia, due lati dello stesso individuo. 

Il successivo cambio di paesaggio ci porta in un campo tempestoso di tumbleweeds (altro segno del western, le tipiche palle di fieno) e qui c'è un altro grande colpo di genio di Van Sant: la scena del miraggio. I due Gerry sono ripresi di spalle (posa cara a Van Sant) e vediamo avvicinarsi dalla profondità del campo una terza figura, che progressivamente si avvicina mentre il campo si restringe su Gerry/Affleck. Solo quando la figura si sarà avvicinata ci accorgeremo che il regista si è preso gioco di noi e che anche noi come Gerry ci siamo fatti intrappolare nell'apparenza delle cose: siamo vittime di un miraggio che ci ha accecato, anche noi ci siamo persi in quel deserto. 

Il deserto è ormai pronto ad accogliere anche noi e si trasforma ulteriormente, diventando una distesa bianca e dai confini assolutamente indefiniti: un'enorme tabula rasa. Questo è l'ambiente apocalittico per eccellenza, il luogo del non ritorno per uno dei due Gerry che, stremato, si butta a terra. E' questo il luogo dove, dopo un'ora buona di silenzio assoluto e sibili del vento sentiamo tornare, in lontananza, i versi degli animali. La chiusura è vicina, ma non senza un sacrificio. Gerry/Affleck, che aveva camminato con la morte sul petto, con la stella da sceriffo appuntata sopra il corpo, deve essere sacrificato. 
Subito dopo la sua morte, che Van Sant affronta quasi come una sfida senza importanza, ecco che in lontananza, dallo sfondo, si staccano delle figure, ombre che manifestano forme di vita, che vediamo sul fondo di un campo completamente bianco e "tagliato" dal passaggio delle nuvole. 

Il finale è emblematico: Gerry/Damon, salvato dal deserto, è nel retro di una macchina in parte a un bambino mentre il padre, alla guida, lo guarda con sospetto. Non sappiamo nulla, il film si chiude nell'indecisione più assoluta, lasciando aperta una serie di possibili indeterminati. 

Prima di chiudere, e dovrei affrettarmi visto che mi sono già dilungato troppo, vorrei mettere assieme gli elementi che ho raccolti fin'ora e tentare di dare una lettura del lavoro di Van Sant abbracciando l'idea del film apocalittico post-undici settembre. 
Consideriamo i due Gerry come due parti di uno stesso individuo, come due elementi di una stessa mente, che possono essere coordinati (la marcia armonizzata) o in contrasto (l'indecisione sulla direzione da prendere). Questo individuo-tipo è certamente un americano (Van Sant è molto radicato all'interno del suo contesto). Se consideriamo la strada come l'itinerario tipo di un americano nella sua esistenza e l'uscita di strada come un evento traumatico che fa perdere i punti di riferimento, ecco che Gerry può davvero essere letto come la fine dei grandi racconti americani, il crollo delle certezze e dei miti made in USA. 
E allora ecco che la scena del deserto bianco si legge bene se immaginiamo quella tabula rasa come un luogo di sospensione, come una grande mente dove le due anime dell'americano-tipo che cerca di uscire dalla crisi sono in contrasto. E' vero che alla fine il Gerry superstite rimane sotto l'occhio vigile di un Padre, ma è anche vero che fra i due, quello era il Gerry meno americano (basta ricordare il suo turbante per capirne l'alterità rispetto al "sistema").

Nessuna pretesa di completezza in queste parole, solo la presa di coscienza di trovarsi di fronte a un vero capolavoro.

VOTO: 10/10

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